Con la Fondazione da Caselecchio di Reno a Mauthausen

La Fondazione Memoria della Deportazione dal 16 al 19 maggio, organizza una visita al campo di Mauthausen con settanta studenti dell’Istituto Leonardo da Vinci di Casalecchio di Reno (Bologna), scuola con la quale prosegue una collaborazione, già avviata ad aprile con la visita ad Auschwitz. Agli studenti, oltre alle necessarie informazioni sulle vicende del campo, sarà proposta una pagina di riflessioni sul significato della visita ai campi di sterminio in rapporto con la necessità della ricerca storica e con le sfide del presente, scritte dal direttore della Fondazione Massimo Castoldi. Per la Fondazione sarà presente il consigliere Divo Capelli, che leggerà e commenterà con gli studenti alcune delle pagine del libro di Gianfranco Maris, Una sola voce: scritti e discorsi contro l’oblio, a cura di Giovanna Massariello Merzagora, Milano, Mimesis 2011, consultabili sul sito della Fondazione medesima.

Massimo Castoldi ha scritto:

Da dati diffusi abbiamo notizia che almeno 500.000 persone, soprattutto studenti, di tutto il mondo visitino ogni anno il solo campo di Auschwitz, e che minore nei numeri ma non molto diversa nelle modalità sia la frequentazione di altri campi di sterminio o di concentramento nazisti e dei memoriali dislocati nelle varie zone dell’Europa.

Il fenomeno ha assunto dimensioni macroscopiche negli ultimi vent’anni: si tratta a volte di veri e propri pellegrinaggi frutto di una religione civile, che vuole a ragione rendere omaggio ai milioni di morti, vittime della politica totalitaria delle dittature, che hanno segnato la storia degli anni Trenta e Quaranta del Novecento.

Il motto diffuso che anima questi itinerari verso il cuore dell’Europa è quello scritto anche nella legge italiana del 20 luglio 2000 che ha istituito il giorno della memoria ovvero un invito a riflettere «su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».

E tale motto si semplifica spesso in un fermo imperativo «Non dimenticate!», che accompagnatori e insegnanti rivolgono ai giovani spesso smarriti e increduli di fronte alle ragioni storiche di tanto orrore; ma sopratutto disorientati di fronte a quella proposizione finale, ridotta a imperativo, che sembra affermare che il ricordare l’orrore sia condizione sufficiente a far sì che non si ripeta, quando invece la cronaca di ogni giorno lo smentisce in modo tanto evidente, quanto drammatico.

Penso che il motto “ricordate affinché non si ripeta”, trasmetta non solo un’immagine oltremodo ingenua della storia, ma anche un moralismo banalizzante, che la vorrebbe risolvere in una visione compassionevole, a volte addirittura in una favola edificante che racconta la guerra del bene contro il male, nella quale noi spettatori passivi siamo inevitabilmente, quasi per un inspiegabile diritto, dalla parte del bene.

Priva inoltre di alcun fondamento è l’affermazione che l’esperienza diretta di quei luoghi possa rappresentare una forma di antidoto contro l’indifferenza, l’intolleranza e la discriminazione. Sappiamo che non è così, ed è la storia stessa a mostrarlo.

Sappiamo anche che il viaggio ad Auschwitz, a Mauthausen o alla Risiera di San Sabba, non è affatto indispensabile per la comprensione della storia, perché non può essere l’impatto visivo di un luogo dove si sono compiuti dei fatti a renderci consapevoli dei fatti medesimi, perché la storia passa soltanto attraverso lo studio e l’interpretazione, l’analisi incrociata e critica delle fonti, l’esame dei nessi tra cause e conseguenze.

Non basta vedere per sapere. Bisogna contestualizzare quello che si vede, storicamente, geograficamente, culturalmente. Bisogna sapere che quello che noi vediamo oggi non è affatto il luogo della deportazione e della morte di allora. Ad Auschwitz o a Mauthausen sono arrivati esseri umani diversissimi tra loro, oggi noi vediamo un’unica immagine di vittime annientate e cancellate anche nella dignità della morte; evochiamo nella nostra mente scene raccapriccianti di orrore che nulla ci raccontano di quegli uomini e di quelle donne, delle loro scelte di vita, né tantomeno delle ragioni storiche che li hanno portati lì.

Il problema che ci tormenta non è infatti il funzionamento delle camere a gas, o gli altri meccanismi di annientamento, ma sono le ragioni umane e storiche che hanno portato alcuni uomini a inventare e mettere in funzione questi meccanismi.

E allora questo viaggio non è il sostituto di una lezione o di un libro di storia. Non avrebbe alcun senso, se non fosse accompagnato da uno studio adeguato.

Andiamo e dobbiamo andare sui luoghi della memoria, non solo per rendere doveroso omaggio ai milioni di vittime innocenti dello sterminio, ma anche per rafforzare in noi l’urgenza delle domande alle quali facciamo fatica a rispondere e che sono le domande, che sono al centro della nostra vicenda collettiva e individuale, che sono le domande del nostro presente:

– perché una società, che si definisce civiltà, arriva a decretare l’assassinio di una parte della propria popolazione?

– perché ciò è accaduto proprio in Germania, in Austria, in Italia e oggi accade anche in altre parti del mondo?

– perché ancora nel mondo contemporaneo cultura e barbarie non sono dissociabili l’una dall’altra, nonostante tutti i discorsi e gli appelli che da secoli si fanno sulla richiesta di pace e di tolleranza?

Visitare i luoghi dello sterminio, dunque, non è né il punto di partenza, né il punto di arrivo di un percorso, ma soltanto un importante, forse oggi imprescindibile, momento di un itinerario di conoscenza storica, al quale tutti dobbiamo partecipare con senso di responsabilità e consapevolezza. Il nostro scopo è ripercorrere insieme la nascita delle strutture del pensiero antidemocratico, del totalitarismo, che i nostri avi hanno prodotto e sostenuto, e impegnarci a riconoscerne i germi nella società nella quale viviamo.

Il nostro è un dovere di conoscenza per cercare di comprendere, prima ancora che di rispondere.