Leggere il tempo negli spazi – 2 Napoli, Campania, Mezzogiorno, Mediterraneo nella prima guerra mondiale Guido D’Agostino-Francesco Soverina

Il centesimo anniversario dello scoppio della Grande guerra (1914-2014) ci sembra  l’occasione propizia per cercare di colmare una rilevante lacuna sul piano storiografico, ripensando a distanza all’impatto su Napoli e il Mezzogiorno del traumatico atto di nascita del Novecento, della tempesta di sangue e fuoco che ha marchiato in maniera indelebile la coscienza e l’immaginario della società italiana ed europea.

Come ormai è assodato, il tuono dei «cannoni d’agosto» mise fine – per dirla con lo scrittore austriaco Stefan Zweig – al «mondo di ieri», alla «pace dei cento anni» (K. Polanyi), per far posto ad un mondo nuovo, carico di drammi, tensioni ed incertezze. La guerra, intrapresa dai governi e dagli stati maggiori con la convinzione di concluderla in breve tempo, si rivelerà, invece, un’orrenda carneficina, che dissolse molte illusioni e mise in discussione il mito secondo cui l’avvenire, il progresso potevano essere edificati sui pilastri della scienza.

Con il suo tragico svolgimento, il primo conflitto mondiale impresse una «vistosa accelerazione al ritmo della storia» (A. Caracciolo), aprendo un’età segnata da eccezionali progressi, straordinarie conquiste, ma anche da spaventosi e immensi orrori. Non senza ragione si è parlato di «apocalisse della modernità» (E. Gentile), di laboratorio della violenza senza limiti e della «brutalizzazione della lotta politica» (G. L. Mosse). Pressoché inscindibile risulta il binomio guerra-modernità, il quale racchiude dentro di sé il carattere ambivalente, contraddittorio dell’intero secolo ventesimo. La Grande guerra è stata, infatti, una fucina della modernità ai più vari livelli, come attesta tra l’altro l’instaurazione di inedite forme di relazioni tra governanti e governati, basate sul primato dell’esecutivo a scapito del legislativo, dei governi sulle assemblee elettive, un modello politico-istituzionale, questo, destinato a proiettarsi dal presente al futuro.

Quella che è stata definita la «catastrofe originaria del XX secolo», la matrice  dolorosa del Novecento, scandì il brusco passaggio dalla società elitaria alla società di massa, portò all’irruzione sul palcoscenico della storia di nuovi soggetti e di classi fino allora tenute ai margini, all’emergere di quelle «forze profonde» che saranno determinanti per le sorti degli Stati e del potere. Costituì il primo atto della «seconda guerra dei trent’anni» (A. Mayer) o della «guerra dei trentun anni» (E. Hobsbawm), cioè di un periodo contraddistinto dall’instabilità politica, economica e sociale, dalla conflittualità endemica ed esasperata. Uno spartiacque epocale, certo, su cui un osservatore d’eccezione quale Sigmund Freud ebbe a scrivere nel 1915: «Non solo è la più cruenta e disastrosa di tutte le guerre sperimentate fin qui, a causa della micidiale perfezione raggiunta dalle armi sia offensive che difensive, ma è almeno altrettanto crudele, accanita e spietata di ogni altra precedente. Essa oltrepassa ogni limitazione a cui ci si obbliga in tempo di pace: quelle limitazioni che sono andate sotto il nome di diritto delle genti; non riconosce le prerogative del ferito e del medico, né fa distinzioni tra popolazione pacifica e popolazione in armi, e nega il diritto di proprietà privata. Abbatte, con furore cieco, tutto quanto trova sul suo cammino, come se dopo di essa non dovesse più esservi né futuro né pace tra gli uomini. Spezza ogni vincolo comunitario che ancora lega i popoli in lotta e minaccia di lasciar dietro di sé un rancore tale da rendere ancora per lungo tempo impossibile il ripristino di quelle relazioni».

L’assunzione del 1914 come osservatorio privilegiato implica di guardare al prima -all’incubazione dei molteplici motivi di tensione – al durante secondo la periodizzazione proposta da Jay Winter – la guerra delle illusioni, la guerra di posizione e di stallo, la grande carneficina, la rivoluzione e la pace – e al poi – alla «pace cartaginese» imposta a Versailles (J. M. Keynes), alla rottura dei vecchi equilibri in campo internazionale, di quelli politico-sociali per l’erompere di un inedito protagonismo di massa, alle gravi difficoltà dell’economia impegnata nella riconversione postbellica.

Conflitto industriale e di materiali, che ingoiò enormi risorse oltre ad un numero di vite umane senza precedenti, la Grande guerra fu combattuta strenuamente sul fronte occidentale, su quello orientale, nei Balcani, in Medio Oriente e in Africa, configurandosi come il terribile rito d’iniziazione alla modernità, con il coinvolgimento massiccio di popoli in armi e di civili mobilitati, in primo luogo dei 65 milioni di richiamati, che finirono per essere cavie di un gigantesco apparato bellico e sistema di dominio.

Il sisma deflagrato nei Balcani si avvertì in ogni continente ed oceano, ma soprattutto sfociò in un irreversibile mutamento geopolitico, con la cancellazione di ben quattro imperi, nel declino dell’Europa, che dopo quattro anni di sforzi titanici e di battaglie estenuanti si ritroverà dissanguata, impoverita e debitrice, per la prima volta, nei confronti degli Stati Uniti. Agitando parole d’ordine mistificanti (la barbarie contro la civiltà, la Kultur contro la Zivilisation) l’Europa combatté se stessa, «suicidandosi».

Ebbe inizio allora la fine del primato europeo su scala planetaria, una fine sancita dall’esito del secondo conflitto mondiale, in virtù del quale l’Europa retrocesse da fulcro di grandi imperi a duplice appendice di due superpotenze extraeuropee. Oltre alle distruzioni materiali, notevoli specialmente in Francia, ai dissesti economico-finanziari, altissimo è stato il numero di esistenze spezzate o irrimediabilmente colpite e sfigurate dall’avventura bellica cominciata nel 1914.

Milioni sono stati i caduti (all’incirca dieci), i mutilati, le vedove e gli orfani, a cui si sommarono i 20 e 30 milioni falciati dall’epidemia della «spagnola», il flagello che infierì su corpi e territori notevolmente indeboliti da tanti sacrifici. Inoltre, come ha messo in evidenza la storiografia più sensibile ai risvolti psicologici della snervante guerra di trincea e di logoramento, che ebbe come teatro soprattutto il fronte occidentale, profonde furono le cicatrici lasciate nell’universo mentale di tanti soldati, sconvolti dai traumi psichici provocati dalle detonazioni delle bombe, dall’incubo dei gas venefici e delle raffiche delle mitragliatrici («il riso rosso», l’unica arma – come ricordò il grande medievista Marc Bloch – a non risparmiare nessuno). A Bloch si deve una testimonianza e una riflessione pressoché a caldo sulla guerra come «esperimento immenso di psicologia sociale», sulla fabbricazione e diffusione delle «false notizie» che hanno preso piede nelle trincee. Non a caso, fu proprio con la Grande guerra che venne messa a punto la moderna propaganda di massa, a cui fu assegnato il fondamentale compito di cercare di plasmare gli stati d’animo delle truppe e dell’opinione pubblica. Giornalisti, docenti universitari, letterati e registi si misero al servizio dei rispettivi governi per spingere le reclute ad affrontare il fuoco del nemico; intellettuali come Thomas Mann, Peguy, Apollinaire, Papini e D’Annunzio, attingendo alla retorica patriottarda, si fecero banditori del funesto verbo bellicista.

Tra le varie dinamiche innescate dal conflitto, non si può non accennare all’aprirsi di un ciclo rivoluzionario in Russia nel 1917, effetto paradossale di una guerra scatenata anche per arrestare l’avanzata del socialismo, per riaffermare il senso dell’autorità e il rispetto della gerarchia. Già nel 1904 Vilfredo Pareto aveva detto: «Se c’è una guerra europea, il socialismo è ricacciato indietro almeno per un mezzo secolo». Alcuni decenni più tardi Fernand Braudel significativamente osserverà: «… senza esagerare la forza della Seconda Internazionale a partire dal 1901, si può ben affermare che l’Occidente, nel 1914, se si trovava sull’orlo della guerra, si trovava anche sull’orlo del socialismo. Questo era sul punto di prendere il potere, di edificare un’Europa altrettanto e forse più moderna di quella attuale. In pochi giorni, in poche ore, la guerra fece crollare ogni speranza». L’assassinio, il 31 luglio 1914, per mano di un fanatico nazionalista, del leader socialista Jean Jaurès, emblema dell’impegno pacifista, annunciò in maniera sinistra il precipitare, di lì a pochissimo, della Seconda Internazionale in una crisi da cui, di fatto, non si riprese più.

Tuttavia, è stata proprio la guerra a soffiare sul fuoco della rivoluzione e a rilanciare l’ala più radicale del movimento socialista: il protrarsi delle privazioni, l’estendersi della morte anonima e dei lutti divennero insostenibili nel 1917, il tornante decisivo che segnò una svolta sul piano militare, con l’intervento statunitense, e sul piano politico e sociale, con la presa del potere da parte dei bolscevichi di Lenin e il manifestarsi del malcontento fra le truppe e nel fronte interno, presupposti e anticipazioni della rovente stagione del biennio rosso, dell’aspra contesa tra le forze della rivoluzione e quelle della controrivoluzione.

Conflitto di tipo nuovo, la Grande guerra è stata una guerra totale che, piegando l’economia e la società interamente alle impellenti esigenze dei paesi belligeranti,  accentuò la trasformazione degli assetti produttivi messa in moto dalla seconda rivoluzione industriale. Con il ricorso da parte dei governi a forme di dirigismo, diede luogo, anche in questo caso, ad un nuovo modello delle relazioni tra economia e politica che prefigurava l’intervento dello Stato nei meccanismi della produzione e del risparmio, cosa che avvenne massicciamente in risposta al dispiegarsi della crisi degli anni Trenta, quando con la segmentazione del mercato mondiale si volgerà definitivamente le spalle alla prima globalizzazione che aveva toccato il suo punto più alto nel 1913.

Per l’Italia la Grande guerra – evento-processo che ha cambiato, come si è detto, la fisionomia complessiva della società e dello Stato – fu anche un’esperienza collettiva, anzi la prima, grande esperienza corale, con l’incontro di italiani dei più remoti angoli del Paese e di diversa estrazione sociale. Si avviò così la «nazionalizzazione delle masse», da tempo in atto altrove, e declinata, poi, dal fascismo in maniera vieppiù autoritaria e dall’alto. Maturò pure, in vasti strati sociali, la presa di coscienza dei loro diritti, stimolata dalla lunghezza del conflitto, dall’inflessibile disciplina militare, dalla pesantezza della vita in trincea. Le aspirazioni alla giustizia sociale dei combattenti furono, del resto, incautamente sollecitate dagli stessi governanti con le promesse di elargire lavoro a tutti e la terra ai contadini, al fine di risollevare il morale della popolazione, sfibrata da tante sofferenze e rinunce.

Dei 6 milioni di richiamati in Italia più di 5 milioni indossarono l’uniforme e tra questi 4.200.000 si alternarono in prima linea, provenendo per circa il 48% dal Nord, per il 23% dal Centro, per il 17% dal Sud e per il 10% dalle Isole. Dei 615.000 caduti, 100.000 morirono nei campi di prigionia austriaci di fame, freddo e stenti. Se si vogliono cogliere, in ogni area, le implicazioni di queste percentuali e numeri, si rendono necessarie la promozione di ricerche e la raccolta di studi che restituiscano, non sparse tessere di un disordinato mosaico in gran parte da costruire, ma i tratti salienti, i fenomeni più rilevanti di un non trascurabile coinvolgimento dei meridionali e del Mezzogiorno in una guerra che irruppe anche nel vissuto delle comunità e società locali, e ciò alla luce della dialettica dei tempi e degli spazi, già applicata efficacemente per la disamina del cruciale 1943, nelle sue premesse come nelle sue ricadute.

Da un lato volgendo lo sguardo all’indietro, dall’altro proiettandolo in avanti, si possono far emergere le specificità degli ambiti regionali e locali, da indagare e ricostruire tenendo conto delle relazioni con il quadro generale, nel contesto più ampio del Mediterraneo, sulle cui sponde si ingaggiarono sfide non secondarie: le operazioni belliche nei Balcani, l’attacco alleato nei Dardanelli, la controffensiva turca, in coincidenza della quale iniziò il primo genocidio del Novecento a scapito degli armeni, il divampare del duello in Medio Oriente, con il relativo patto Sykes-Picot e la «dichiarazione Balfour», gravidi di conseguenze, la più importante delle quali è la perdurante e lacerante questione israelo-palestinese. Non si dimentichi, peraltro, che il principale scopo per cui la classe dirigente italiana decise di intervenire era di ritagliare, per il Paese, una posizione di un certo rilievo nello scacchiere adriatico-balcanico.

Delle dimensioni e degli innumerevoli aspetti della guerra, di cui la storiografia si è occupata negli ultimi decenni allargando lo spettro delle fonti (dalla letteratura al cinema, dalla fotografia ai monumenti), degna di particolare attenzione è, senza dubbio, la tematica della sottomissione dei fanti-contadini alla disciplina omologante della civiltà moderna (A. Gibelli), un ulteriore passaggio modellizzante, che è venuto  fuori – e ancor più può venir fuori – dall’analisi di materiali documentari quali le lettere dal fronte (ben 4 miliardi di missive furono inviate da una zona all’altra del Paese), i diari e la memorialistica. Altro nodo ineludibile è quello della mobilitazione civile, con le donne, le casalinghe chiamate a subentrare, sia pur temporaneamente, agli uomini nei lavori in città e soprattutto nei campi, e con i minori che, oltre ad aiutare ed affiancare le mamme, furono reclutati per costruire trincee e camminamenti. Quanti meridionali fra i 12 e i 19 anni  – è il caso di chiedersi – si ritrovarono tra le decine di migliaia di ragazzi, che vennero impiegati nei rischiosi cantieri militari a ridosso del fronte?

A loro volta i problemi legati all’approvvigionamento e ai razionamenti, che così tanto si fecero sentire, rinviano al diverso ripercuotersi del conflitto sul rapporto città-campagne, zone costiere-aree interne, dentro cui un ruolo peculiare è stato ricoperto – è quasi scontato sostenerlo – da un grande centro urbano come Napoli, le cui vicende rimandano da un lato alle fratture prodotte dal contagio della febbre interventista, dall’altro alla militarizzazione dell’economia, al potenziamento dell’apparato produttivo e alla concentrazione della manodopera, nel tentativo di allestire rapidamente un esercito moderno. Si ricordi che le forze armate italiane, entrate nel conflitto possedendo soltanto 618 mitragliatrici, ne ricevettero ben 37.000.

Con la guerra, pure nel capoluogo partenopeo, si accrebbe il peso dell’industria, specialmente nel comparto siderurgico e in quello della meccanica pesante, a fronte però del divaricarsi, sul piano generale, della forbice tra Nord e Sud, giacché il capitalismo italiano, grazie alle commesse belliche, compì sì un poderoso balzo in avanti, ma soltanto nel «triangolo industriale». È questa una problematica che sul terreno locale andrebbe ripresa, approfondendo i non pochi contributi esistenti, che risalgono per lo più agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

Una fonte, preziosa quanto sinora poco esplorata, per comprendere il formarsi della «valanga» interventista e poi il riflettersi a Napoli dell’andamento del conflitto, è costituita dai registri conservati nei maggiori istituti scolastici superiori, con le annotazioni di quegli insegnanti che hanno reiterato gli appelli a battersi ed immolarsi

per «il sacro suolo della patria», in una Napoli che ebbe tra i suoi ‘figli’ Armando Diaz, «il generale della vittoria», E. A. Mario, l’autore della celeberrima Leggenda sul Piave, Amadeo Bordiga, l’intransigente oppositore socialista della guerra, Roberto Bracco, uno dei pochi intellettuali a schierarsi contro l’intervento, in quanto convinto antimilitarista, come lo era del resto quel Giacomo Matteotti che scontò in quegli anni un lungo confino in Sicilia  (su tali punti, vedi ancora più avanti).

Ultima questione, ma non ultima in ordine d’importanza, è quella che si può definire la via monumentale della memoria, ossia la rielaborazione del lutto mediante il culto dei caduti e le pratiche di monumentalizzazione, di cui in larga misura si appropriò il fascismo. Quando alla fine d’ottobre del 1922 Benito Mussolini – in tight – si recò da Vittorio Emanuele III – il «re-soldato» della propaganda nazionalista – esordì dicendo: «Maestà vi porto l’Italia di Vittorio Veneto». L’incarico di governo ricevuto dal tribuno di Predappio, dopo la Marcia su Roma, rappresentava l’affermazione della «trincerocrazia», lo sbocco della travagliata fase cominciata nel 1914 e che catapultò nel 1915 il Paese in guerra, per l’effetto congiunto delle manifestazioni di piazza dell’aggressiva minoranza interventista e delle trame della corona e dell’esecutivo, per le quali Giuliano Procacci in un saggio del 1965 non esitò ad usare la formula impegnativa del colpo di Stato.

 

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Consapevole dell’assoluta rilevanza del tema e dell’occasione importante fornita dal Centenario della I guerra mondiale, nonché intenzionato a valorizzare la presenza l’apporto e il ruolo specifici della realtà meridionale rispetto al terribile ma cruciale evento nazionale, europeo e infine mondiale, l’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, dell’Antifascismo e dell’Età Contemporanea “Vera Lombardi” si propone  - secondo la linea strategica da esso perseguita nel campo della ricerca scientifica – di attendere, nel prossimo, più immediato futuro, ad un denso programma di iniziative.

Di tale programma costituiscono altrettanti capisaldi una prima raccolta di saggi che dovrebbe vedere la luce entro maggio 2015; quindi, nell’autunno dello stesso anno, un convegno con studiosi napoletani, campani, meridionali e nazionali (se sarà possibile anche con qualche relatore straniero) e relativa pubblicazione degli Atti; più spostata nel tempo una mostra documentaria, fotografica, filmica, oltre che di oggetti, divise, armi, ecc., il più possibile ricca, ben montata e allestita, collocata negli spazi più idonei. Questo, per brevissime linee, ciò che si intende realizzare, secondo un percorso che ha preso il via con l’importante riunione-seminario svolta a Napoli, presso la sede dell’Istituto il 20 giugno 2014, con l’intervento di rappresentanti di molte prestigiose istituzioni culturali cittadine e campane, di studiosi e storici napoletani, delle province della nostra Regione, di vari contesti territoriali del Mezzogiorno, continentale e delle Isole, in molti casi esponenti o responsabili degli omologhi Istituti storici locali della Resistenza (tra i quali, anche, e soprattutto, il Presidente dell’Istituto storico di Reggio Emilia, Mirco Carrattieri).

Relativamente all’ambito napoletano sono emerse numerose indicazioni, o suggestioni, riguardanti le fonti da sistemare, o già sufficientemente in condizione da prestarsi all’eventuale utilizzazione, ma anche quelle letteralmente da ‘scovare’ o riesumare. Ne hanno fornito ragguagli, e alimentato la relativa discussione, la dott.ssa Azzinnari, dell’Archivio di Stato di Napoli (stralci di biografie eccellenti; registri della Leva militare; sezioni dell’archivio di Prefettura e materiali riguardanti l’associazionismo nell’immediato primo dopoguerra); la dott.ssa Fiorella Amato, della Sovrintendenza Archivistica regionale (particolare documentazione inerente le province di Avellino e Benevento; avvisi pubblici; registri di leva e truppa); anche dall’Archivio Storico Municipale, presente con suoi operatori e funzionari, sono venute diverse utili informazioni (fonti di enti assistenziali, dell’Annunziata, oltretutto con riferimento all’epidemia della «spagnola», nonché la proposta di redazione di apposito inventario tematico). Rientrano ancora in tale area larga della documentazione sia il prezioso contributo del preside di Vaio, che partendo dall’esperienza in corso del Forum delle Scuole Storiche napoletane ha illustrato la potenzialità delle fonti raccolte negli archivi scolastici (registri, scrutini, annuari, foto, relazioni di cerimonie, apposizione di lapidi commemorative di caduti legati alla singola scuola); sia della dott.ssa Nappi (Soprintendenza regionale Beni Culturali e già autrice di significative ricerche e volumi sui monumenti ai Caduti nei Comuni delle province di Napoli e Salerno), la quale ha segnalato tra l’altro fondi di particolare interesse  presso il Museo Campano di Capua ed ha evidenziato il ruolo di sostegno finanziario alla realizzazione di molti monumenti da parte di emigrati locali all’estero); sia infine dei collaboratori dell’Istituto Campano: il dottore D’Angelo (fascicoli personali di combattenti e reduci; il diario del parroco di una importante chiesa di Ponticelli, e in genere, registri parrocchiali nonché notizie riguardanti le vittime dell’epidemia già ricordata), la professoressa Cucari (percorsi biografici, cimiteri di guerra), la dottoressa Insolvibile (caduti campani e cadutismo più in generale).

Per restare ancora su Napoli, da evidenziare alcuni rilevanti spunti tematici quali l’infanzia profuga, e le centinaia o migliaia di fanciulli o pre-adolescenti intruppati e inviati nelle zone di guerra per lavoro ausiliario praticamente coatto, su cui hanno insistito il dottor Verolino (autore già di un saggio sui reduci di Ponticelli); la professoressa Selvaggio (Università di Salerno), che in particolare ha ricordato le vicende della nave-asilo Caracciolo (a cui ha dedicato un’accurata monografia) e dunque il percorso da scugnizzi a marinaretti, diffondendosi sul ruolo della Marina

nel corso della guerra, suggerendo il coinvolgimento, nel programma di iniziative,  del Museo del Mare e dell’Istituto Nautico di Bagnoli (“Duca degli Abruzzi”).

Assai incoraggianti e promettenti le notizie fatte pervenire dalla dottoressa Martorelli (Museo di San Martino) circa il deposito, nei locali del Museo, di varia quantità di documenti e reperti, in ogni caso da restaurare e riordinare, proveniente da associazioni reducistiche non più attive. Per i professori Iaccio (Università di Salerno e Napoli) va adeguatamente valutato come il cinema abbia trattato il tema della guerra (nel più generale rapporto cinema-storia), senza trascurare l’apporto che può recare lo studio della toponomastica, o la ricognizione della produzione di canti e musiche negli anni 1914-18; Soverina (ICSR), accanto al cinema, il primario interesse per la letteratura; la riflessione sui fenomeni di mobilitazione industriale (Ilva, Armstrong, OFM, Ansaldo), e relativa documentazione; la doverosa attenzione da portare alla stampa del tempo e all’insorgenza del «biennio rosso».

Fuori da Napoli, ma restando in Campania, interessanti puntualizzazioni e proposte riguardanti Terra di Lavoro – dovute al professore De Marco (Seconda Università di Napoli) -, centrate sull’industria napoletana, il “biennio rosso”, la questione alimentare, il fronte albanese e la linea adriatica. Specifiche osservazioni hanno riguardato Gaeta (oscuramento, l’ossessione fuori controllo per eventuali spie e salvatori; la censura); Capua (il lavoro femminile al Pirotecnico e l’ostilità per il turno di notte); Aversa (manicomio, cartelle cliniche); situazione sanitaria legata alla «spagnola»; nel Casertano agitazioni operaie e opposizione alla guerra. E, ancora, al professore Corvese si debbono osservazioni relativamente alla situazione nelle campagne; mobilitazione della società ‘civile’; persecuzioni politiche, stampa, vignette e tipologia giochi e giocattoli, cartoline; materiale documentario presso Archivio di Stato di Caserta, Museo Campano, Ospedale di Aversa, Scuole).

Dall’Archivio Municipale di Salerno (dottoressa Napoli) sono già partite efficaci iniziative per la raccolta di foto, lettere, documenti, in collaborazione con privati, Scuole, Parrocchie, Congreghe e con la locale Università; già all’attivo, una serie di manifestazioni pubbliche.

Infine Puglia, Calabria, Sicilia; per la prima il professore Leuzzi (Istituto Storico della Resistenza) ha chiarito peculiarità di città e terre adriatiche e invitato a considerare elementi di lungo periodo, rispetto alla stretta cronologia di guerra, legati alla guerra di Libia e al ‘teatro’ balcanico. Anche qui persecuzioni politiche (contro socialisti); prigionieri e profughi; la figura e la vicenda biografica di Tommaso Fiore; Chiesa, Scuole; presenza di un nucleo armeno. Specifico il caso di Bari, il cui sviluppo urbanistico è stato in modo decisivo influenzato dalla guerra e nella quale assai intenso è stato il dibattito ideologico pro e contro l’intervento. Numerose le rivolte bracciantili (femminili) e valutazione, in termini generali, di una configurazione complessiva del caso pugliese come di un laboratorio meridionale.

Della Calabria, il professore e giornalista Pantaleone Sergi (Istituto Calabrese dell’Antifascismo) ha messo in rilievo la necessità di approfondire la partecipazione della regione al primo conflitto mondiale, e, più ancora, di passare in rassegna «cosa avveniva in Calabria negli anni di guerra», attraverso la stampa, alcuni percorsi di vita, un ricco ‘giacimento’ di fotografie. Segnala infine l’arretramento o arresto di un promettente movimento socialista, che si sarebbe ripreso solo diversi anni dopo; per alcuni Comuni (Acri, ad esempio), già realizzati notevoli lavori storici.

Cruciale per la Sicilia – secondo quanto riportato dal professore Mangiameli (Università di Catania) – il rapporto con il Mediterraneo sud-orientale, nonché i legami dell’aristocrazia isolana con realtà austro-tedesche. Intenso il dibattito neutralismo/interventismo, anche per le connessioni, ricadute sul terreno economico (agrumicultura, miniere di zolfo). Vari altri punti toccati: mobilitazione di guerra, abbandono campagne e ritorno del latifondo; renitenza e monumenti ai caduti.

Via via, e su punti specifici, ma anche a conclusione dei lavori, è intervenuto Mirco Carrattieri (tra i curatori del libro Fronti interni, Esi 2014) dando notizia di vari programmi e iniziative in corso (Europeana, Pieve Santo Stefano, Università di Trento), segnatamente, nel territorio emiliano, del data-base di partecipanti, caduti, decorati; lo stesso, per quanto attiene alle composizioni musicali dell’epoca. Importanti ricerche sul neutralismo, sulla «nazionalizzazione delle masse» come prologo del fascismo; per quanto riguarda il Sud, oltre che rispetto ai temi generali, vale necessariamente la pena – a suo avviso – di dedicare speciale cura per scuola, infanzia, associazionismo; ancora, per mobilitazione industriale e situazione nelle campagne, valorizzando specificità di genere e di generazioni, o il dramma di profughi e prigionieri. Anche per Carrattieri, va utilizzata cronologia ‘larga’, e dunque la relazione prima-durante-poi; né si potrebbero trascurare la peculiarità geografico-territoriale e il caso Napoli.

 

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Questi, insomma, i punti di partenza per il comune programma di lavoro (da approfondire, quanto potrà derivare dai e per i territori provinciali e regionali non ancora toccati; così come già è possibile e doveroso apprezzare l’apporto prospettatoci da indagini linguistiche e antropologiche (dottor Petrossi, giovane ricercatore) e dunque dalla chiave metodologica accennata già nella premessa e declinata secondo modelli multi ed interdisciplinari.